ÉIDŌLA: omaggio a Claude Lèvi-Strauss
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Êidos, in greco immagine, deriva dalla stessa radice del verbo idêin, (“vedere”), da cui idéa (“ciò che si vede”). Le immagini eidetiche sono proiezioni mentali talmente vivide e dettagliate nel loro talvolta acceso cromatismo, da essere quasi percettive. Fenomeno caratteristico in bambini e adolescenti, va gradatamente attenuandosi in età adulta, nella quale è raro. L’eidetismo persiste nei soggetti tendenzialmente e intensamente visionari, tra cui, in primis, gli artisti, i quali rimangono in perpetua connessione con la lingua perduta dell’infanzia e del mondo ai suoi primordi, il mondo dei “primitivi”. Éidōla, idoli, in latino idola, simulacra.
L’arte di Azzali possiede la potenza epifanica che l’appartenenza alla cultura occidentale di norma smussa: artista dal “pensiero selvaggio”, trae gli “éidōla” – gl’idoli, le deità -, dalla dimensione dell’incorporeo, e li conduce abbaglianti sino a noi. Per questi particolarissimi oggetti il consueto termine “opere” non è del tutto proprio: a ben vedere, li si è recuperati al visibile, è stata loro restituita forma e tinte, mediante un processo per il quale risultano “materializzati”, più che “fatti”. Azzali ha reso visibili gli “spiriti” (accostabili a quelle forze denominate Wakan Tanka dal popolo Sioux, all’uomo-uccello di Rapa Nui, al dio Quetzalcoatl, il “Serpente Piumato” azteco…) strutturandoli in varie apparenze totemiche – in differenti declinazioni semiologiche -, in preda a quel furor che velocizza il fare artistico fino a un ritmo sincopato, seguendo un impulso compositivo istintivo e lasciando fluire con modalità quasi automatiche la propria tecnica di per sé assai sapiente. Un invasamento da mènade che spinge la persona dell’artista a svuotarsi, fino a esaurirne il filone, delle seduzioni-ossessioni che la governano.
Tale persona – cioè qui Azzali -, agendo da “medium”, slitta in secondo piano, è ininfluente. Gli oggetti-totem della serie “éidōla” denunciano con chiarezza la propria natura di reperti recuperati attraverso un’incessante indagine archeo-etnografica ed antropologica sul campo e, al contempo, rivelati dal fulgore di un satori, di un’illuminazione che ha consentito di discernene le sagome e intravvederne i colori senza nome, una volta sospinti dalla corrente e incagliati sulle rive, alle foci di antichi fiumi che “scendevano a Oriente”. Nelle intenzioni dell’artista essi dunque sono le deità, anziché la loro rappresentazione; non simulano, non raffigurano, pertanto non simulacri nell’accezione di falsa immagine (“vuoto simulacro”, appunto) che si sostituisce al divino, bensì – come indica Florenskij per le icone – , epifanie, singole specifiche apparizioni-sfaccettature del Grande Spirito o Grande Mistero, “Manitù” o “Wakonda” (o altri innumerevoli nomi usati dai popoli delle varie etnie disseminate sulla terra).
Nella ritualità totemica da lei istituita, Azzali gioca a confondere e a fondere la dimensione del “sacro”, il luogo separato ove si compiono azioni – riti, misteri – fuori della norma (e che per ciò comportano un rischio), con quella dell’arte: entrambi, totemismo ed arte (contemporanea), sono sistemi non simbolici (cioè non alludono ad altro da sé) ma autoreferenziali. Il gesto trasgressivo dell’artista consta allora nel trasferimento nell’arte di ciò che nella cultura del contemporaneo si situa ai suoi opposti, il sacro. In tal senso Azzali, riferendosi idealmente al pensiero di Lévi-Strauss, indaga intorno a un ambito culturale e cultuale che non ci appartiene; si mostra dunque capace di aprirsi all’intuizione dell’esistenza di una cultura che non è la nostra.
Si vuole qui però evidenziare come Azzali renda omaggio alla scienza antropologica e all’insigne pensatore e studioso non solo con gli esiti artistici di questa più recente ricerca, ma con l’intero suo percorso creativo. Autentica “art globe trotter”, l’artista veneta ha viaggiato “all over the world” inseguendo, prima che del tutto svaniscano, le tracce superstiti di antichissimi dei occultatisi nella foresta pluviale della Nuova Guinea o inerpicatisi sulle lastre di basalto a picco sul mare ad Orongo, Rapa Nui.
La sfera d’azione, o, per meglio dire, di spedizione (etnografica) di Azzali è l’intero globo; sino ad ora, la viaggiatrice-testimone ha registrato e raccolto indizi che spaziano dalla cultura ed arte oceanica australiana a quella polinesiana delle Hawaii; da quella precolombiana (andina e mesoamericana) a quella melanesiana della Nuova Guinea (il territorio dei papua); rimarchevole l’indagine particolare da lei appunto dedicata all’isola di Rapa Nui; ha girato il Nord America e il Canada nella zona dei Grandi Laghi, esperendo così un diretto contatto con la cultura indiana; inoltre, ha viaggiato largamente in Africa, India, Indonesia e in Estremo Oriente. Dobbiamo immaginarla mentre viene incoronata, al suo arrivo alle Hawaii ancora sul finire degli anni Ottanta, proprio con una ghirlanda (Lei) di piume di gallo, o, sospesa a corde indigene, mentre, di notte, con la complicità di amici Rapanui, realizza giganteschi frottages dei petroglifi dell’uomo-uccello siti sulla stretta cornice del vulcano Rano Kau, sopra a un precipizio di 350 metri dall’oceano da una parte, dal fondo del cratere spento dall’altra.
Nel confondere arte e sacro, nel visualizzare totem, Azzali concretizza il tema mortale dell’interdizione, del tabù, che del totem è freudianamente gemello, e il principale dei riti: il sacrificio, collegato a quel grande ambito rituale che, per le popolazioni tribali, – e presso gli antichi – era, ed è la caccia. Nella cultura araba, ci ricorda l’artista, ogni piuma appartiene all’anima di un uomo. Ed è pesante come una spada: le piume vengono strappate all’uccello abbattuto, come finale del rito cruento della caccia. Dietro al seducente policromatismo, al cangiantismo del piumaggio, si cela l’oscurità, il nero della morte. Il variegato colore delle piume fa dimenticare l’orrore del sacrificio, di cui il totem è dio. Ogni piuma è allora una lama sulla quale si rifrangono i colori dello spettro, in duplice accezione: le sfumature d’indicibile bellezza dell’arcobaleno, e, al contempo, il fantasma della morte.
Azzali ha recuperato, e perpetua, l’antico gesto sacro della raccolta, della caccia alle penne, ma il “rimosso” di questi sgargianti trofei-trionfi – esplosioni di contrasti tra primari, complementari e corone di tinte secondarie in compenetrazione tonale – è un unico colore, il rosso bruno del sangue. Da sempre il sacro si fonda sulla morte, il sacrificio, la caccia. Nel culto dionisiaco, la figura del dio delle Bakchai (Baccanti), nel cui corteo compaiono le fiere più selvagge – pantere, leopardi, leoni – , è insieme vittima e carnefice, preda martoriata e cacciatore. Nume delle Mènadi che sbranano l’apollineo cantore Orfeo, è lui stesso, nella variante di un’antica storia orfica, il fanciullo divino con le corna che, come un capretto, viene cotto e mangiato dai Titani. Attraverso l’offerta agli dei e la manducazione della vittima sacrificale – che è un oggetto/soggetto puro e sacro – , si realizza il passaggio delle energie sacrali, e dunque la comunione dei partecipanti al rito. Quel che si attua è una forma di comunicazione conviviale con la divinità. […]
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