Il frutto del fuoco

Il frutto del fuoco

by Enrico Mascelloni, Spoleto 1997

La forza di ogni linguaggio sta nell’insita potenzialità di poter andare oltre se stesso. Ciò che non si supera muore. È per questo che ancor oggi, pur dopo aver visto tutto ed il suo contrario, non ci accontentiamo dei compitini in bella calligrafia, dei dolciastri confettini di fine secolo: gli arabeschi, i ghirigori, il rococò delle astrazioni scolastiche. Non ci accontentiamo neanche del trucidume postqualcosa: assassini pulp, obitori en plein air sono il malcelato rovescio dei baci perugina, la “confezione dono” per affrontare con adeguata buona volontà anche il terzo millennio di privazioni, patimenti e pentimenti, confessori, monache […].

E la forza di chi usa oggi la tecnica fotografica per fare arte, per evitare, cioè, di fare cronaca, è che si trova continuamente di fronte alla chance del superamento dei propri limiti. Ma in realtà son pochi quelli capaci di avventurarsi oltre la soglia dell’inerzia e della conformità alle regole. La fotografia, nella sua stupida meccanica riproduttiva, Eh infatti poco più che un vuoto a perdere. Tutti, in un paio di sedute come si deve, imparano a fare delle belle ed inutili fotografie. Ma solo chi mette del fuoco nel linguaggio (chi incendia il linguaggio) può fregarsene, oltreché della messa a fuoco, anche della fotografia, sia pure usandola come medium principale, cercando qualcosa che è oltre l’immagine e la sua propensione moderna ad essere riprodotta all’infinito.

È di questo superamento che è intriso il linguaggio di Grazia Azzali. È come se le sue immagini, se le sue giovani femmine davvero bruciassero, e non solo metaforicamente. È come se il procedimento che le ha strappato l’immagine-anima dal corpo (le donne musulmane, ormai più attente delle cristiane alla difesa del proprio corpo, ben sanno quanto sia pericoloso lasciarsi fotografare) fosse un frutto del fuoco, perché dal corpo strappa, insieme al sembiante, anche una sua quota potente di fisicità. Guardando queste opere par quasi che l’immagine, la scena, sia stata fissata sulla carta fotografica per contatto diretto, attraverso un processo di surriscaldamento. È come se le figure fossero state proiettate sul foglio attraverso uno strumento che non sapeva accontentarsi della loro virtualità, ma che, quasi fosse una fonte incandescente, trasportasse sul foglio il calore, o il gelo, di quei corpi.

La potente sensualità delle donne di Grazia Azzali non alloggia soltanto nella loro bellezza o nelle pose che assumono, ma sta anche in questa tensione da superamento dei limiti della fotografia, quasi volesse diventare scultura, o teatro, o comunque altro da sé. Anche l’atmosfera d’antan ed i vari processi di modificazione dell’immagine cercano di estrarre la fotografia dalla sua bolsa condizione di moderno ed asettico doppio delle cose. È in tal senso che Grazia critica la tecnica assumendola per intero, dando persino alle sue immagini una connotazione demodée: di miserie, di splendori e di libidini di una volta. Le tecniche antiche lasciavano sempre qualcosa di più dell’immagine sul supporto: la xilografia non faceva mai dimenticare la pressione del legno sul foglio, e quell’inchiostro pressato che sprofondava nella carta conteneva per intero l’inerzia del legno. Così i corpi a cui Grazia Azzali non si accontenta di strappare l’anima si proiettano sul foglio, lasciando, oltreché l’immagine, il solco profondo della loro potente fisicità. Figure e scene sembrano penetrare nel supporto in forza della loro erotica immanenza e non per mero illusionismo. Così l’immagine dilata concettualmente l’immaterialità della carta e la sua stessa virtualità, sottoponendo a un gioco dolce e non privo di rischi (tutt’altro che virtuali) l’artista e le sue modelle, noi e le nostre passioni.