Fata del Destino

Fata del Destino

by Michela Giacon, Venezia 2024

In quest’opera inquietante e sorprendente, Azzali  evoca e materializza una visone sovrannaturale. La trasporta sino a noi  conferendole un’apparenza che gioca sul limine tra bi- e tridimensionale, in un incastro di pezzi di forma che fluiscono in un assemblage coerente e al contempo contraddittorio, straniato e inafferrabile, sfuggente e indistinto. E poi, ancora, transeunte e imperfetto, effimero e incompleto: Azzali aderisce indubitabilmente all’estetica nipponica del Wabi Sabi. Una fata glamour: composta, parrebbe, di carta stagnola dorata come l’involucro dei Ferrero Rocher, e di splendenti ritagli di seta da modelli Haute Couture, s’avvita in un’innaturale torsione, e a guardar bene non vi è un corpo in essa. E’ una Fata Inesistente, Calvino docet. Vuota come l’armatura di uno shogun esposta in un museo d’arte orientale.

La Fata del Destino ci volge, diremmo, le spalle, sprofondando nel suo buio di pece e simultaneamente emergendovi vicina e lontana, pervasa da bagliori, luminiscenze da lucciola e da neon, intensi spot in stile fotografia pubblicitaria rinforzati qua e là da oculati interventi di tratti d’inchiostro. Nella massa medusea dei capelli aurati, guizzanti come serpenti, si annida un teschio, che ironicamente allude alla natura della Fata.

La parola “fata” deriva appunto da “fato”: le Parche – coloro che nel mito greco antico presiedono al fato d’ogni uomo, pronte a reciderne con veloci forbici il filo della vita – venivano dette infatti anche “Fatae”.

Tra fiabesco e orrido – un poco mummia egizia o peruviana rivestita di lamine d’oro, il volto scarnificato ammiccante tra le onde della ancor folta e lunga chioma – , la perturbante Fata di Azzali stravolge in visione contemporanea la storica tradizione britannica, squisitamente vittoriana, della Fairy Art o Fairy Painting: pensiamo alle splendide opere sul tema di raffinatissimi pittori quali John Anster Fitzgerald, Richard Dadd, Edmund Dulac, Richard Doyle, Joseph Noel Paton, e anche, più innanzi, nel secondo decennio del Novecento, alle apparizioni di fate realizzate in camera oscura da Arthur Conan Doyle  per il suo libro The Coming of the Fairies (1922).

Citiamo qui un’opera di J.A.Fitzgerald, The artist’s dream (1857): all’artista assopitosi appaiono creature dell’inconscio, grilli, diavoli e mostri boschiani, sotto lo sguardo scrutatore della lunare Fata Sovrana del regno dell’Onirico. L’entità tradotta da Azzali in forme percepibili anche se spurie, disciolte ed eterogenee, animate dal tono d’oro fondo del virtuosistico chiaroscuro – quasi veste dai complicati panneggi d’etereo angelo fiammingo – , è infatti verosimilmente apparsa all’artista nel non-luogo misterioso e di transito tra il sonno e la veglia, il magico “dormiveglia”, e di quello stato di passaggio, di sospensione tra due mondi, conserva le caratteristiche ambigue. Un sogno in cui si affacciano aspetti d’incubo, come il ghignante simbolo di morte che riluce seminascosto tra le chiome. Più di cent’anni prima di Freud, padre fondatore della psicoanalisi, un pittore e letterato nato a metà del Settecento – dunque rappresentante d’una cultura tra neoclassicismo e romanticismo – , si addentrò audacemente nell’oscuro territorio del sogno: lo svizzero Johann Heinrich Füssli, poi trasferitosi in Inghilterra, ove, conosciuto col nome di Henry Fuseli, produsse anch’egli, con qualche decennio di anticipo, opere assimilabili a quella corrente pittorica che fu poi denominata Fairy Painting, con opere come La Regina delle fate con il principe Artù (1788). Vero antesignano di Freud nella fondamentale importanza attribuita all’attività onirica, e di simbolismo e surrealismo nelle arti visive, fu maestro nel raffigurare l’inconscio: visioni del dormiveglia, orridi incubi che si siedono sul petto delle fanciulle dormienti, apparizioni spettrali, pericolosi esseri fatati. Dipinse il fato e le fate, le proprie visioni ad occhi aperti, in opere come Il sogno del pastore (1793), Solitudine all’alba (1794), e Tiresia predice il futuro ad Odisseo (1805-10).

Azzali si dedica da lunghi anni, nel segno della sua peculiare cifra stilistica,  al rendere visibili creature dell’Invisibile – come nella sua nota serie Angeli – e  quelle celate nel nostro inconscio. Sono rintracciabili con Fussli similitudini cromatiche, specie negli eclatanti contrasti di giallo, ocra e bianchi puri o cinerei su fondi neri o scuri, e di un avvalersi d’una tipologia di  chiaroscuri tesa a intensificare i valori visivi dell’immagine. A tal proposito, riferendoci ai metodi di visualizzazione esperiti da Azzali in questa sua Fata del Destino, si tratta d’una commistione tecnica sapientissima basata su originali invenzioni dell’artista nella scelta e mescolanza dei mezzi rappresentativi e nell’uso di particolari materiali. Commistione, fusione tecnica complessa che non  disvela facilmente i suoi processi: il percorso di realizzazione dell’opera è un segreto percorso iniziatico accessibile a pochi adepti. In tal modo, la figura della Fata afferma il suo conturbante carattere d’apparizione: non sembrando fatta da mano umana, è definibile immagine “acherotipa”, icona proveniente non dal cielo ma dai profondi recessi del nostro cosmo interiore. Proiezione di quello che è effettivamente il ruolo svolto dall’artista, sciamano e visionario, nel consesso delle umane genti. La Fata, giunta allo sguardo dall’oscurità, prima di scomparirvi di nuovo appare pronta a dirimere le sorti muovendo gli esili fili delle nostre vite.

Michela Giacon


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